Dalla soglia dell’eternità

24/4/’45 ore 24, carcere di Cuneo

Amore mio diletto,

è mezzanotte e ancora stiamo chiacchierando allegramente. Siamo tutti e cinque assieme e si scherza quasi allegramente. Come già ti ho detto è stato qui D. Monge a cui ho consegnato il portafogli e gli indumenti, D. Oggero, parroco di S. Ambrogio (Cappellano delle Carceri) e D. Panori. Ci siamo confessati e speriamo quest’ultimo ci porti ancora la Comunione domattina.
Anna Maria cara, forse tu piangerai a leggere questa mia. Se piangi per te, per il tuo avvenire troncato, passi, lo comprendo, ma se piangi per me, no! Ti sbagli. Anna Maria, nella tua ultima mi esortavi ad avere fede in Dio; non credi quanto mi senta vicino a Lui in questi momenti! La morte? Eterno spauracchio di noi mortali! Spauracchio? Sì, ma per la materia, che m’importa! La materia? E cosa può la materia? Quante volte nei momenti felici ho pensato ad un momento simile! Ricordavo proprio stasera di aver letto “L’ultimo giorno di un condannato” di Victor Hugo che forse si trova ancora a Faione tra i miei libri. Tante volte basandomi su esso ho pensato al momento di morire. Quanto ero sciocco!!! Solo ora lo comprendo. Sai Anna Maria cosa rimane all’ultimo di tutto? Solo quello che è santo e puro della vita. L’affetto dei genitori (in essi tua madre), l’affetto di quanti mi vollero bene e che ora avvalori sotto un’altra luce; la luce che ti proviene dall’affetto per Dio. Amore mio, ti ho sempre amata tanto, tu lo sai, ora ti amo più che mai perché ora maggiormente si accostano i due amori, per te e per Dio.
Anna Maria, forse mi dirai che potevo ben dirti altre parole di maggior conforto, lo so, ma quale conforto può essere maggiore per te se non il sapere con quanta serenità tuo marito si prepara a veder Dio. Sono solo contento che Dio ha avuto pietà di me e ancora all’ultimo momento mi ha mandato un sacerdote. Anna Maria sapessi mai cos’è la vita vista dalla soglia dell’eternità, quale miseria, te lo posso ben dire io con quale orrore si guarda al nostro passato! Se non fosse quella stessa fede che ci fa provare simile orrore, a sostenerci, che si farebbe mai? La fede ci fa provare orrore, ma nell’istante stesso, ci dice che Dio è infinitamente grande. E allora si implora la sua misericordia. Quando finalmente hai provato la sensazione della sua misericordia e l’hai provata con maggior fede delle altre volte, poiché sai che è l’ultima volta che Dio ti dice: “Ego te absolvo…”. Ecco che guardi sicuro davanti a te e non temi più! Sono sicuro che tu e mamma alle 7 pregherete quasi certamente per me, per il mio ritorno, rassegnatevi al volere di Dio, io a quell’ora penserò a voi che pregherete per me e morirò sereno.
Amore mio, dal portafogli ho trattenuto la tua fotografia e quell’immagine in cartapecora che mi desti quando eri anche tu in carcere. Le ho nella tasca interna della giacca, sul cuore, saranno simbolo dell’immenso affetto per te, che mi porto nella tomba. Al dito la fede, la porto con me come ricordo di quella fede promessati quasi un anno fa e che mai ho tradito.
Anche tu conservami nel cuore e soprattutto nell’anima. Prega, prega, prega tanto per me, non dubitare che io pregherò tanto per te, perché Dio ti conceda quella felicità che purtroppo io non ti ho potuto dare. Vedi che io sono sereno, spero di esserlo anche tra poco davanti ai miei carnefici, sii forte anche tu nel tuo dolore e rendi forti anche i nostri genitori. Domani forse conoscerò tuo papà. Se Dio mi vorrà con Lui, con tuo papà veglierò su te. Non ti dico addio… perché come già ti ho detto fra noi non vi è addio, resta e sii la consolazione dei nostri genitori, specie di tua madre che è sola e poi…… arrivederci, il tuo Attilio

Sono le 6 del mattino. Aspettiamo la Comunione. Sono calmo e ti bacio di tutto cuore. tuo Attilio

7,30 – Abbiamo ricevuto la S. Comunione, mi sento forte. Ho pregato tanto. Abbiamo ricevuto la Benedizione papale…… Siate forti ed abbiate fede. Aff.to Botti Eligio

Fatevi coraggio, Bracciale Rocco, Cornaglia Virginio, Tomatis Renato.

Note al documento

L’appendice è probabilmente opera dei compagni di prigionia di Attilio Martinetto, che condivideranno il suo triste destino di lì a pochi attimi. Nel documento sono presenti alcune correzioni fatte a mano con una penna nera. In alto nella prima pagina, a matita, è scritto il nome di Attilio Martinetto.

Carte segrete

Da oggi si riapre uno dei nascondigli tutti che ha la terra: la poesia, l’esperienza umana di Scipione, una delle migliori intelligenze del suo tempo, secondo Cesare Pavese. Ringrazio l’editore Bizzarro per avermi fatto confezionare l’invito alle Carte segrete restituendo, spero almeno in parte, l’incandescenza del loro fuoco e il mio amore per questa “dichiarazione aperta del mondo umano o se si vuole letterario, non estraneo alla pittura, anzi mischiato ad essa, come un medesimo fatto, senza la separazione dei regni” (Guttuso 1942).

Io sono la voce dell’albero che cade,
la mia corteccia sarà accarezzata
quando si vedrà che dentro sono bianco […]

Oltre a un inserto fotografico con alcuni dei suoi quadri e disegni più rappresentativi, all’interno c’è anche un inedito saggio di Alvaro Valentini sull’autonomia e la dignità estetica della poesia di questo immenso pittore che fondò la Scuola Romana alla fine degli anni Venti, ma ebbe anche un posto nelle antologie del Novecento accanto ai nomi di Ungaretti Quasimodo e Montale.

Per il futuro

[…] Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. […] Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente. Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti. Un bacio di amore a tutti. Aldo.

Cotta

Stringi le braccia avvolto da una sensazione, come di menta liquida. Bevi le cose portate da lei e senti i brividi sulla schiena. L’amore mi offre colori che non posso rifiutare, importa solo l’amore, l’amore, il tuo amore.
Dormi nel tuo letto, hai la testa pesante. Forse dovresti fregartene, getta quei sogni. E osa. Chissà se mi interessa, l’amore mi offre colori che non posso rifiutare, è tutto amore quel che luccica, è amore, il tuo amore.

(traduzione di questo brano)

In realtà ero bella

Elsa ogni tanto ci portava in Paradiso. E a chi chiedeva: «A me mi porti?» «No», lei subito, decisa, «Non c’entri niente tu. Tu non ci puoi venire in Paradiso». «E allora chi ci porti?» insistevano i delusi, «Patrizia ce la porti?» E Elsa: «Sí, Patrizia può venire in Paradiso».
Ah, come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere! Però, per non offendere, facevo la distratta coi respinti. Anche se poi, tra discussione e dubbi, un po’ alla volta venivano alla fine quasi tutti assunti. Ma io – a parte i gatti, che stavano già lí ad aspettarci – ero la prima, sempre, la prescelta. Non mi chiedevo il motivo di questa preferenza: da un lato mi pareva naturale, dall’altro pensavo fosse meglio non mettersi a indagare. Del resto, io a quei a quei tempi venivo ammessa ovunque: ai pranzi, al cinema, a teatro, andavo sempre bene con chiunque. Neanche di questo mi chiedevo la ragione, forse per questo avevo l’ammissione.
In quanto al Paradiso, a figurarmelo, io non vedevo altro che il prato dove stavo, come un vassoio che ci portasse in alto, un po’ inclinati e senza piú le sedie, per cui ci si arrangiava poco comodamente sopra l’erba. Un’altra differenza era con gli alberi, molto piccoli, qui, da miniatura, e con le chiome composte e tondeggianti. E poi c’erano i gatti, lenti, sul fondale, che, finalmente belve, parevano piú grandi del normale.
Non c’era altro, neanche mezza schiera di beati. Ce ne stavamo lí, tranquilli, a chiacchierare, le voci liete, senza mai un’asprezza – persino Elsa teneva basso il tono – le facce buone buone, intese a dimostrarsi ospiti all’altezza del posto e del regalo. E anch’io pallidamente simulavo, pur annoiandomi degli altri e di me stessa, mentre qualcosa mi diceva che essere prediletti può bastare in sé, e che a volerne raccogliere i frutti si può cadere in una scialba sproporzione. Che c’entra, per Elsa era diverso, aveva un’altra idea del Paradiso, lei ci vedeva innegabili vantaggi: andare senza borsa, per esempio, o alla sera non lavarsi i denti.
Ma io non ero ancora cosí stanca e preferivo i pranzi concitati, benché tra me un po’ mi vergognassi di non avere spirito abbastanza per trasognarmi nei piaceri alti. Avrei piú tardi rimediato, quando crescendomi la noia mia e degli altri, sarei ricorsa al piú sfrenato immaginare per abolire, non dico la realtà ma ogni traccia di verosimiglianza. E adesso mi stupisco quando penso a tutti quegli ingenui andirivieni tra un prato e l’altro dei nostri Paradisi tra i quali io sceglievo il più terreno per fingermi l’amata, la prescelta, chissà per quale grazia immeritata, senza sapere che in realtà ero bella.

Patrizia Cavalli su Elsa Morante (da un’intervista Rai)
(Qui un’altra chiacchiera smagliante)

Un librone

Ieri è arrivato a casa un librone Adelphi del 1986. Stamattina l’ho aperto, ho letto un testo che già ben conoscevo e mi sono accorto per la prima volta di un aspetto che nessuno ha mai sottolineato di quel testo, nelle sue tante citazioni saggistiche. Alzo gli occhi dalla pagina e resto in ammirazione fisica: il grande formato, la grammatura consistente, il font riconoscibile, la testatina, i corpi diversi dei caratteri, l’odore della carta matura, le quinte azzurro avio delle alette in sovraccoperta, questa precisa combinazione di ogni elemento mi ha predisposto e fatto vedere quello che altrove non avevo mai visto, all’interno dello stesso testo, in tutti gli altri luoghi fisici e digitali di consultazione. E mi è sembrato di stare per un attimo davanti al volto in filigrana di Roberto Calasso, di più: quasi mi è parso di sentirne la voce, la cadenza, il timbro, nell’ovatta di uno studiolo pieno di libri a ogni latitudine. Diceva, lo stai facendo bene, perché noi lo abbiamo fatto bene; questo è l’oltre fantastico dei pensieri comunicanti; questo, diceva, è il motivo che ci ha sempre convocati nel golfo mistico dell’inattuale. Inconsumabile.

Cuore d’albero secolare

Ho tra le mani da due giorni un libro di 135 anni fa. L’ho aperto solo oggi, dopo averlo fatto ambientare nello studio, alle variazioni della luce del giorno sulla scrivania. L’ho salvato dalla libreria della mia bisnonna prima che arrivassero estranei a dismettere la casa della nostra grande storia. Sul dorso della prima pagina di rispetto c’è la dedica: A Lucia Carrozza la sua maestra offre per incoraggiarla a studiare. Sotto, la firma: La Bua Rosina in Natale; più giù, stavolta a destra, di sbieco, la data: 13/12/94. Era la coda dell’Ottocento. Mi sento davanti a un albero, unico elemento fisso di un paesaggio cambiato nei secoli, da bosco a campagna, poi periferia, poi centro città. E l’albero, la sua anima sono ancora lì. Mi fa impressione poter ricavare dalle poche parole scritte in grafia sottile, e certo con la stilo, un racconto senza ombra di dubbio fedele a una realtà dei fatti così lontana, quando io non ero nella mente di mia madre, che non era nella mente di mia nonna, che non era nella mente di mia bisnonna. Nel racconto c’è la condizione eletta, all’epoca, di una bambina che riceve un’istruzione; c’è il timbro di quella pedagogia, fatta di carezze che velano evidenti prigionie; c’è il giorno preciso della settimana in cui Lucia riceve il suo regalo, un giovedì, per l’onomastico; c’è la motivazione del regalo che allude a una pigrizia nell’apprendimento; c’è la formalità dietro il gesto affettuoso di un adulto che nella firma mette prima il cognome e poi il nome. Ovviamente, c’è anche il titolo del libro, perfetto per invogliare alla lettura.

C’era una volta una bambina di buona famiglia, ricca da generazioni. Si chiamava Lucia. La scuola era cominciata da appena due mesi, ma Lucia sembrava ancora presa da altri pensieri. Un giovedì, ebbe un regalo dalla maestra. Un libro per il suo onomastico. Lucia sapeva leggere, certo, non era più all’inizio della carriera scolastica, eppure non le andava tanto di rinunciare ai giochi coi cugini e i figli dei servi, e il mondo di fuori, o anche solo il labirinto invitante del loro palazzo davanti al mare, erano troppo belli per chiudersi in un libro. Ringraziò la maestra, fece un inchino e tornò a prepararsi per la messa nella cappella di famiglia. Almeno quel giorno, le lezioni erano rimandate. Che gioia, poi, festeggiare l’onomastico mangiando arancine come da tradizione legata alla santa del 13 dicembre. Entrando di corsa in camera, il libro le cadde di mano e atterrò aprendosi sul frontespizio. Lucia si chinò a raccoglierlo e finalmente gli diede un’occhiata. Era uscito otto anni prima, 1886. Però, aveva un bel titolo! Cuore. Il sottotitolo sembrava parlare proprio a lei: Libro per i ragazzi. Meritava una possibilità. Così la bimba saltò la raccomandazione dell’autore e iniziò a leggere. Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Anche il protagonista andava in estate lontano dalla città, come lei. – Vediamo un po’, dai. Magari mi piace anche il resto.

Tutti gli occhi che ho aperto

sono limpida oggi, come un vetro mai rigato dalla pioggia. Ho dimenticato cosa ho dimenticato. Guardo soltanto. Gli stormi passano. Attraverso la luce si raccoglie il tepore nel bosco sulla collina, nel mio corpo finalmente disteso – ho creduto al cielo. Alla linea spezzata dell’orizzonte. Come una sagoma semplice, una possibile forma di vita.

[Ecco l’ultimo testo della raccolta. Cammino da tempo nella scrittura di Franca Mancinelli, poeta aperta a frequenze vicine anche al mio orecchio, per la luce da cui a volte siamo parlati. Il suo ultimo libro, Tutti gli occhi che ho aperto, è stato già contato da più voci del mondo critico e non solo italiano, oltre a quella di Fabio Pusterla che le ha dato le Ali di Marcos y Marcos, lo scorso autunno. Sorvolando perciò ogni intento sistematico, estendo con partecipato disordine solo un altro invito alla lettura delle sue opere. Invito che inizia con il bianco, il viaggio, la voce prestata, l’epifania del vivente nella natura, l’invisibile come testo a fronte, l’idrogeologia franata di una terra interiore, il corpo in continua torsione liminare, fino al foglio cartilagine: sono solo alcuni tra i luoghi prediletti di Franca, che scrive iniziando sempre con la minuscola. Minuscola come il dorso anfibio di un dialogo col mondo che inizia e finisce oltre la pagina, di cui il testo è un’emersione parziale, traccia, residuo linguistico di una realtà più viva e grande di quella restituibile dalla pur volenterosa mimesi della parola inerte, compiuta; residuo che ha il valore contrario a quello dello scarto, però, e assume i tratti multipli dell’indispensabile. I frammenti posti nelle varie sequenze del libro hanno la densità del bagaglio essenziale, da mettere nello zaino prima dell’incessante migrare cui siamo destinati oggi, nell’alto mare discorsivo. Tutti gli occhi che ho aperto ha così l’andamento frastagliato di un’interferenza a rovescio, fatta di brevi chiari del bosco, piccoli nitori nel groviglio dell’accadere, vie di accesso a più di “un incavo del tempo” come – a volte cupo, a volte luminoso – è il silenzio tra le note, che per Debussy coincide con la definizione stessa della musica. Lo spartito che Franca ci ha restituito stavolta, sincope di prose lineari e versi poetici, ha una struttura circolare con una fine e un inizio che si ripetono.]

quello che posso lo scaldo al fuoco. Abbiamo trovato una pentola di buona fattura. Chi ha bivaccato qui, ora è già forse in Germania. Questione di tempo, di soldi e di fortuna. I soldi li ha presi la nostra guida. Beve energetici da una lattina nera. Ha il sapore di sciroppo per il mio bambino.

[Ecco il primo testo della raccolta, in perfetta consonanza con l’ultimo, perché nato dalla stessa esperienza: un percorso a ritroso compiuto da Franca nel tratto croato della “rotta balcanica” dal confine sloveno a quello serbo. La sua voce qui è prestata a una figura di donna che ha davvero passato quell’inferno, e il prestito poggia sulla grande capacità di apertura di questa poeta all’altro da sé, non solo umano, ma vivente in ogni forma. Di apertura in apertura, si doppia così la fine del libro tornando al suo inizio e alle 8 sezioni di cui è composto, numero che raffigura l’infinito. Eppure, ieri per la prima volta mi sono fermato sulla soglia di questo infinito, quasi trovandone un’uscita segreta, verso l’alto. Malgrado l’opera provi a eludere il concetto stesso di entrata e uscita dalle sue pagine, nel suo movimento di rigenerazione circolare, mi è parso per un attimo di riuscire a staccarmi e guardarla dall’alto. Dopo le note si trova infatti l’indice del libro.]

ogni giorno per il taglio utile
fanno un rumore secco
quando tornerai a vedere
ho visto gli occhi degli alberi
ramifico secondo la luce
era inerte l’aria
non è stato intagliato
ho iniziato a curvarmi
dai rami della specie
da qui partivano vie
entro nella pioggia come in un bosco.

[Ecco l’indice della sequenza Alberi maestri. Le poesie di Franca non hanno titolo, così l’indice si compone di tutti i primi versi. Leggere qui l’indice della raccolta è l’ultima forma di invito che estendo a tutti i lettori ancora fuori dalla poesia di Franca. È un modo per familiarizzare, se non altro, con il lessico: galassia di porte aperte sull’opera. L’orientamento in colonna sembra però suggerire altro, se non la possibilità, quantomeno l’invito al collaudo di una “super-poesia” sfuggita allo stesso controllo dell’autrice. È un’ipotesi gratuita, ludica e irriverente, ma la sua eventuale accoglienza non toglierebbe nulla al valore della poeta, anzi, forse ne rafforzerebbe solo il carattere di ospite prescelta dalla poesia per manifestarsi. Proviamo a leggere i titoli di altri testi come parti di uno stesso componimento che apre a connessioni imprevedibili. Sentite.]

dove lo scorrere di un fiume si interrompe
corro. E sto fermo all’incrocio
con la forza del niente
– stanno ancora tessendo
l’allarme non scatta, ma è un furto
la calpesti ogni giorno
è accaduto, resta: nel cupo
al centro il mistero, lo stame
nel chiarore d’inizio
lungo la rete di sangue asfaltato
ritorno, ascolto l’aria. E poi salto
punto gli occhi e si compie
negli occhi chiusi una sorgente
l’infinito dei morti

il morto si può fare: braccia aperte
è il giorno, il vento
tutti nella stiva premendo
alla deriva, nel moto continuo.

[Ecco l’indice della sequenza Luminescenze. Il rigo bianco è un’intera pagina bianca nel libro, dov’è disegnata una spirale come la sezione di un tronco, mutilazione necessaria all’apertura di altri occhi. È solo una proposta, continuo a guardare con sospetto la possibilità di leggere l’opera dall’alto, per così dire, sfruttando l’indice come chiave di accesso al mondo della poeta, saggio della sua coesione e coerenza interna. Il sospetto però non è come rivolto a qualcosa a cui non si crede fino in fondo. È come l’attesa di afferrare bene una voce, sulla cui esistenza non c’è alcun dubbio. La voce in continua rigenerazione da cui è parlata Franca, che nella cartilagine di pagina 29 dice:]

ramifico secondo la luce
alberi maestri
a spalancarmi il petto
con la forza che viene da un seme.

Fuggire via nudi

Oggi abbiamo letto la passione secondo Marco, testo tanto lungo da non lasciar spazio all’abituale omelia: prima benedizione. Un testo tanto denso da offrire mille appigli per riflessioni di ogni genere: seconda benedizione. Il totale mi ha commosso come sempre, ma è un dettaglio ad avermi rapito. Spesso non si fa caso ai dettagli nei vangeli, piccole descrizioni tra eventi enormi e ben più memorabili. Io invece mi ci rompo la testa perché è roba pur presente e degna di stare lì, secondo la volontà del narratore (volendo riassumere in un solo nome un’intera tradizione orale, quindi teoricamente ancor più severa di quanto può esserlo un singolo individuo, rispetto a cosa tramandare e cosa no). Il dettaglio di oggi, il particolare che un’intera tradizione ha voluto salvare, si trova alla fine dell’arresto di Gesù, nel Getsemani. Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Questa figura misteriosa si distingue dagli altri fuggiaschi per due elementi: per un attimo viene afferrato; poi fugge nudo. Quale decisione poetica c’è dietro questi due elementi? La mancanza di studi teologici lascia la fantasia tutta spalancata sulle spiegazioni possibili. Cosa significa essere afferrati, anche solo per un attimo? Cosa significa fuggire via nudi? E c’è un legame tra le due cose? La nudità è forse l’unica condizione possibile di fuga dopo essere stati afferrati? E insieme, a ritroso: perché questo ragazzo si trovava lì? Perché era avvolto solo da un lenzuolo? Sui precedenti che lo condussero lì in quelle condizioni non posso dire granché, senza il giusto tempo e i dovuti riferimenti. Qualcosa però si può dire sull’episodio in sé. Il ragazzo viene afferrato perché resta un attimo più di tutti accanto al Gesù ormai fallito; più dei seguaci strettissimi, più di quanto saprebbe fare oggi chiunque. La Storia così gli mette addosso gli artigli, come stava facendo col rabbì tradito. Il peso è insostenibile e, per fuggire, il ragazzo deve abbandonare il lenzuolo che lo copriva. La sindone di questo morto ambulante che si era attardato al fianco di Gesù è tolta allora, come simbolo di una resurrezione che lo riporta allo stato di purezza adamitica? Oppure, al contrario, l’insostenibile vicinanza al Gesù fallito gli ha fatto perdere l’elemento candido, aprendolo alla fuga adulta come dopo il genesiaco assaggio dall’albero della conoscenza?

Se la prima interpretazione sminuisce il valore della fuga, che invece conta moltissimo perché assimila infine il ragazzo a tutti gli altri, il secondo tentativo restituisce senso a entrambi gli aspetti: la fuga e la nudità. Fuga, dunque, come reazione all’insostenibile conoscenza della vera identità di Gesù che comprendeva la cruna di un fallimento. D’altra parte, non si può dire che gli apostoli fuggiti non conoscessero l’identità di Gesù. Il fatto è che non se ne rendevano conto, come poi faranno dopo la resurrezione. Questo ragazzo invece si è reso conto davvero di chi è Gesù, nel momento più difficile: questa è la differenza tra lui e gli altri fuggiaschi ancora vestiti. Se questo è vero, il simbolo della nudità può comprendere entrambe le interpretazioni delineate prima: dopo aver capito il passaggio obbligato di Cristo per la cruna, restare dentro la Storia è insostenibile per questo ragazzo, che però resuscita davanti alla scoperta della vera cifra di Gesù.

Eccolo allora il nostro che, quasi personificando in modo liberatorio il desiderio di Gesù sull’allontanamento del calice, prefigura un Adamo che rinasce e fa il percorso inverso al primo uomo: la vera conoscenza, prima che si compia la resurrezione, lo caccia fuori dalla Storia e lo fa tornare così com’era uscito, di corsa, nell’altro giardino dove si sta nudi e non ci sono soltanto ulivi. Continui pure la Storia il suo corso, deviato per sempre da un apparente fallito, eterno fuorilegge dello spirito davanti a ogni dottrina.

A cosa serve l’amore

Gravidi invero, o Socrate, sono tutti gli uomini, e nel corpo e nell’anima, e quando sono giunti a una certa età, la nostra natura brama di partorire. Ma nel brutto non può partorire, nel bello invece sì […]. Perciò, ogni volta che un essere gravido si avvicina a ciò che è bello, si dispone alla benevolenza, e rallegrandosi si diffonde e partorisce e procrea; quando invece si avvicina a ciò che è brutto, allora, incupito e rattristato, si contrae, cerca di scostarsi, si rinchiude e non procrea, e piuttosto, trattenendo in sé la creatura concepita, la sopporta penosamente. Onde sorge appunto, in un essere gravido e ormai turgido di latte, la violenta emozione a riguardo di ciò che è bello, poiché questo libera chi lo possiede da grandi doglie. L’amore infatti, o Socrate, non ha come fine ciò che è bello, come invece tu credi.
– Ma che cosa allora?
– La procreazione e il dare alla luce in ciò che è bello.

Platone, Simposio