Ti ho sognato

Sai, stanotte ti ho sognato. Cos’era, a scuola, dire o sentirsi dire una frase così? Sigillata da un sorriso poi, e due attimi di silenzio come gli occhi, due. Era un balsamo velenoso, paglia sul fuoco alle fantasticherie segrete del timido innamorato. Oppure era solo un fatto, nudo e crudo sì, ma pur sempre arrangiato su un basso continuo di colombi che tubano in primavera e tra i rami lasciano mille piste libere all’arrivo fulmineo di Eros. Poteva essere solo una frase ma illuminare un’intera giornata aprendo gli atri di un cuore pigro, o anche solo farti piacere se eri già felicemente impegnato. Da adulti, non capita spesso di dirlo o sentirlo dire, e questa mancata esternazione non riguarda solo un pensiero naturale per un’altra persona ma una patina più diffusa che annebbia il nostro rapporto con le cose e fa dubitare che crescere significhi disamorarsi del mondo, pestati da delusioni e mancati traguardi, o pretesi dai recinti a cui dobbiamo fare la ronda ogni giorno.  Continua a leggere “Ti ho sognato”

Trappist-1

Leggeranno in futuro le nostre fantasie sugli altri pianeti come oggi noi leggiamo gli spasimi di Leopardi sulla luna, dicendo che teneri a parlare di qualcosa che reputavano irraggiungibile o pura visione e colle che gli escludeva il guardo da tanta parte dell’ultimo orizzonte sulle galassie? Allora suoneranno altre favole su cosa? Su qualcosa al di là dei loro occhi puntati oltre i tre pianeti che ballano nel cielo di un loro simile di Trappist-1. Chi ricorderà loro che tutto, tutto ciò e pure oltre il limite di questo, nei più atri corridoi dello spazio, era già contenuto nelle luci a cui il gobbo appuntava gli occhi e che a lor sembrarono un punto ed erano già immense, in guisa che un punto a petto a loro eran terra e mare veracemente, negli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle ch’a noi paion qual nebbia? Più avanti è sempre la poesia di ogni mai sperata luce della scienza, persino quella che dimostrerà ai nostri successori che noi qui non siamo mai esistiti.

Eterno riposo

Forse hanno sbagliato la traduzione, o magari sono io che mi attacco troppo alle parole, ma c’è qualcosa che non torna in questa preghiera dell’eterno riposo. La religione stillata da uno a cui si torse l’utero per gli occhi chiusi dell’amico, tanto da entrare in grotta e svegliarlo, non può augurare alle anime proprio di tenerli chiusi in eterno. Se poi diciamo “riposo” perché è un concetto che implica un risveglio successivo, è solo scorretto definirlo eterno. Yeshùa non ha mai pronunciato o insegnato questa richiesta, non gli sarebbe venuto in mente. La luce perpetua serve forse a me, tenerla sulla memoria evanescente degli amori per cui dico la preghiera finché resto ancora qui a impiantarmi e cambiare forma per attecchire nella vita. È nel mio seme terrestre che spero riposino per sempre gli emigrati all’altra riva degli affetti. Anche perché è vero che la vita stanca, ma non serve certo l’eternità per riprendersi dalle sue fatiche: un periodo di riposo lungo anche il doppio degli anni passati sulla terra immagino basti a ricaricare le energie. Penso alla promessa fatta dall’inchiodato al ribelle accanto e dico: in paradiso non si dorme.

Falco

Sento pretendo e so di avere occhi di falco. Non per quanto lontano riesca a vedere, fermo in un posto, ma per quanto con lo sguardo sento di volare sulle teste dei cari a cui penso forte, nelle loro vite staccate dalla mia che li raggiunge con certezza. Volo sulla testa di una persona che oggi affronterà una cosa difficile, sulla testa di un’altra che niente di grave ha oggi se non riuscire a far quadrare tanti impegni di lavoro e famiglia, su quella di una terza anima mia che si arriccia di stizza per tutto aggrovigliata in un periodo di atra solitudine. Di me, inchiodato a ritmi diversi nell’aria di un’altra città, conosco gli occhi davvero e, giuro, i miei occhi sono il conforto e la coperta di vigilanza calore affetto e protezione sulle loro teste. Da tanti anni abbiamo ormai dimostrato che c’è un mondo in cui le cose possono comunicare senza fili. Così loro possono certo sentire me, irradiato nei pochi centimetri quadri d’aria che hanno davanti, poco sopra la fronte, rimpetto all’attaccatura e al profumo dei capelli.

Che il trovare non ponga termine

Quando si dica ad uno che sia presente: non ho chiesto di te, vuol dire che non lo si ama. Perché quando si ama qualcuno lo si vuole avere sempre vicino, poiché lo stesso amore teme che egli sia assente. Quando si ama qualcuno, si vuol sapere che egli è presente, anche se non lo si vede, e ciò senza stancarsi. Questo significa il “cercate sempre il suo volto”, così che il trovare non ponga termine alla ricerca interiore che caratterizza l’amore, così che con il crescere dell’amore cresca anche la ricerca nell’intimo della persona amata.

Agostino d’Ippona, Epistola 104 a Nettario (marzo/aprile 409 d. C.)

Tullio De Mauro

Un mese sol fa, ha posato
l’archetto della lingua Tullio De Mauro.
Violino altri la sua memoria:
qui lo si canta senza lirismi,
in prosa di jazz. Non sol un die si s-
-pese a vantaggio del nostro linguaggio
scalandone l’alto lignaggio
fin su la vetta del passero gobbo.
Certo, crome ieri  anche oggi
la situazione resta grammatica
– né altre si può figurarla
ma non fa dièsis ché
grazie alle partiture ’de Mauro
noi cantori a Tullio eccedenti
abbiamo tasti e corde abbondanti
da sonarla come conviene
pur tra le sincopi dello sconforto,
se d’un maestro può dirsi
ha smesso ma, oh, non è morto!