Mezzi termini

La necessità di non perdere tempo a dosare i mezzi termini di un tono, un giudizio, un modo di fare, cresce al passo con la stanchezza di un’età in cui si supponeva invece di raggiungere la saggezza o roba simile, se non altro avendo affinato l’arte della mediazione e della prudenza. Esagerare è un tratto tipico degli adolescenti, degli attori, degli esaltati per via chimica e pochi altri. Non si addice a un marito e fresco padre di due figli, se è questa la mia etichetta più immediata. Invece io voglio esagerare, oggi più di ieri, se è possibile. Ho bisogno di abbandonare i mezzi termini e raggiungere sempre e in ogni occasione la piena mèta del dire, quando parlo – perché ho deciso di parlarci – con qualcuno o qualcuna. Forse, crescere davvero e diventare saggi è aver collezionato un numero di esperienze tali, dirette e indirette, da raggiungere un livello in cui poi si ritrovano alcuni tratti degli anni fioriti tra spigoli e incertezze. Con tutta la dignità in più, però, di una vita ricca di cesure e rinascite nel mezzo. “Sia il vostro palare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno”, disse il primo rinato.

Ringraziare è una cosa seria

Il massimo grado di tangibilità veicolata dalle parole è sempre dato dall’espressione di un ringraziamento: solo una sua forma – da quella palese e breve (grazie) a quella più segreta ma pulsante nella luce indiretta di uno scritto o di un parlato – solo una forma tra le mille possibili di ringraziamento ricevute ribadisce l’esistenza vera degli altri, confermando al ringraziato che c’è vita nello spazio ignoto delle galassie individuali. Se Kafka non sembra ringraziare, in realtà, noi avvertiamo la sua esistenza concreta nella grazia di una scrittura che illumina l’inquietudine di cui era fatto, e sentiamo la ragione del suo ringraziamento nel poterla comunicare, farla cioè uscire da sé, nello spazio che sono i suoi lettori. La bellissima superficie delle parole è l’unica offerta di mondo alieno tangibile e toccante di cui si può disporre. Altre forme d’arte, dall’eros alla musica, implicano già la costruzione partecipata di una realtà. Soltanto le forme gratuite e luminose del ringraziamento confermano l’esistenza indipendente e autonoma di altre vie concrete per l’anima, in perfetto e autonomo stato di circolazione. Così, una delle più belle definizioni descrive l’amore come una sorta di ringraziamento anticipato e gratuito nei confronti dell’amato: non si fanno calcoli sull’interesse desumibile, non si aspetta di ricevere un bene per contraccambiare. Si riconosce la meraviglia del semplice fatto che l’altro esiste: quell’altro da me c’è veramente, e io l’ho conosciuto. Ringraziare è una cosa seria, spesso ridotta alla degradante funzione di chiudere un dialogo o aprire meccanicamente un intervento, magari ringraziando chi ti ha invitato a parlare. Nessuno ringrazi se non ha ricevuto davvero qualcosa di inaspettato.

Sognarsi stanchi

Adele avrà quasi cinque mesi, quando metterà piede per la prima volta a Palermo, per la Pasqua in Sicilia, l’altra isola rispetto a quella dov’è nata. Oggi andavo a prendere Arturo a scuola e questo pensiero su sua sorella mi ha inventato una commozione. Erano da poco passate le quattro e avevo già le gambe stanche per una notte troppo breve, un rassetto domestico di portata esistenziale e impegno fisico importanti, un bicchiere di vino dopo pranzo e un fallito tentativo di riposare. Ma era quella stanchezza a regalarmi lo spazio per concepire la prossima felicità: tanti cari conosceranno il mio pettirosso e io la vedrò sorridere nel posto dove sono cresciuto e di cui sono fatto per sempre. Facce, strade, giardini, spiagge, suoni, odori, luci, ritmi, cultura. Sarà la prima volta che potrò vederla davanti al mare. La stanchezza di oggi mi ha liberato dalla possibilità stessa di pensare alle incombenze che pure intanto mi pretendono – quotidiane, burocratiche, lavorative, organizzative. Così, oggi ho intuito che uno dei più diffusi e taciuti desideri – non solo di chi ha figli ma di tutti quelli che non possono smettere di essere qualcosa, dai tossici del lavoro agli schiavi in ogni campo, dal divertimento al più serioso monachesimo ideologico – uno dei sogni più riposti è quello di poter essere semplicemente stanchi. Esercitare la stanchezza: esibire al mondo e a sé stessi un passaporto di debolezza, permettendosi di essere stanchi e nient’altro, stare e basta. A volte, ancora, quando Adele è con me e le mie braccia sono la sua casa del sonno, mi godo questo lusso. Guardo le nuvole senza altri pensieri e avverto l’esercizio antico di una presenza, lo scorrere esclusivamente fisico del tempo su di me, nell’unisono di una giostra che si è fermata per un attimo e lascia spazio solo ai respiri che ci sento fare, al di qua della tenda, nella camera del sole.

Risonanza

Il martello batte sulla corda una volta, oppure mille. Solo quando si ferma sa cosa ha fatto, quale musica è stata. Quale continuazione del passato nel presente. Il complesso che nell’aria ha mosso certe onde vive grazie alla consegna della tastiera ferma. Oggi ho smesso di suonare, fatto l’ultimo gesto. D’ora in poi è risonanza. Per il tempo necessario, terrò le mani in sospeso. Cambierò ogni giorno i fiori sul tavolo aspettando nella camera della fiducia. Ho suonato abbastanza da rendere elastico il tempo fino al raccolto – sia pure magro o pieno di frutti, il mio Unico l’ho dato e so che tornerà: sarà un bacio all’improvviso o una risata che si annuncia da lontano. Nell’attesa che il suono arrivi dove l’ho mandato, il grande vuoto si riempirà di terra e cosmo, e io facilmente mi perderò in altre faccende. Potrò anche dimenticare tutto. Un giorno, però, qualcosa mi cercherà: sono l’opera. Tornerà il suono che ho staccato da me. Sarà stato nell’udito altrui, avrà il volto del loro “momento” ma sarà ancora la carne mia e delle vite che ho trascinato con me, nel presente dell’esecuzione, senza chiedere il permesso. Sarà un bacio per sempre o anche una risata: la amerò ugualmente questa musica. Tornerà, mi troverà, e mi darà il mio nuovo nome.

Passo per passo, finché è finito

Non faccio bilanci ma repertori dei gesti conclusi quest’anno, li scrivo che poi mi dimentico, poi mi rivedo, ne gusterò il senso a giostra finita. Saluto così, con la mano, il postumo che in me si prepara e vive già oltre, come uno spettro nella vestaglia. Ma per un mese da oggi ancora starò sul ponte che unisce le sponde tra vecchio consunto e imponderabile nuovo: mi aspetta il prossimo 30 una consegna importante. Lo spettro la sta definendo tra un pranzo e una cena di auguri, un saluto e l’altro degli ospiti brevi, un’esigenza famigliare e quella di rifiatare, una notte bianca neonatale e un ludico meriggio col figlio maggiore. In questo, e nella conta delle colpe, inseguo la gioia che vive al fondo di un’opera bella e bella pure perché gestante tra questa fine d’anno e l’inizio del prossimo. Poi, proprio stamane ho trovato la filastrocca per camminare in questa fatica, l’ha detta il mago Tognolini e la ricopio per tutti gli incastrati dai lavori altisonanti o miseri ma ugualmente schiavizzanti che non possono darsi come vorrebbero, ed io per primo, al tempo della cura e del ristoro coi propri cari, perché tutti presi alla definizione di un’opera.

Filastrocca delle opere
Pietra su pietra, passo per passo
E il mucchio alto diventa basso
La strada lunga diventa breve
Il peso grave diventa lieve
Riga per riga, continua dritto
E il foglio bianco diventa scritto
Il libro nuovo diventa letto
Ciò che è da dire diventa detto
Per ogni opera c’è il suo cammino
Non è lontano, non è vicino
Ma c’è un segreto che va capito:
Passo per passo, finché è finito

Colori

Blu, rosso e multicolore. Triste, arrabbiato e confuso. Non ho mai assistito a una sintesi più precisa di quella fatta oggi da mio figlio sui suoi stati d’animo. A scuola stanno lavorando sui colori delle emozioni e fra poco arriverà in casa la sorellina. Un disastro, lo definì quando glielo dicemmo. La cosa che mi ha colpito di più non è stata la pulizia chirurgica, ma la naturalezza con cui ci ha fatto il suo elenco cromatico. Era immediato, come se avesse le tinte davanti agli occhi e le potesse prendere in mano per farle vedere anche a noi. Come posso rispondere io: guarda, è una mela, se mi chiedono che frutto ho in mano, pensando anche di passarlo un attimo per farlo soppesare. Le emozioni erano lì, affollate e in tumulto, in totale contrasto con la lucidità che le raccontava. È stato inequivocabile, rapido, chiaro e semplice. Spesso si lega la mancanza di educazione sentimentale alla penuria di mezzi linguistici, tra le varie cause, ma devi essere in contatto con ciò che provi per poterne poi parlare: è la premessa necessaria. Un contatto prelinguistico, una immediatezza fisica, devi toccarla l’emozione e lei deve toccare il tuo centro senza inquinamenti di sorta. Certo, la vita mette recinti e l’edera cresce veloce sugli automatismi difensivi, chi riesce ancora a vedere il suo centro è un maestro. Questo io sogno: di poterci riuscire sempre, anche se il caso che mi riguarda è opposto al difetto di verbalizzazione e fissa nel “troppo linguaggio”, anzi, un inquinamento altrettanto rumoroso tra le emozioni e la capacità di dirle a me e agli altri. Fra pochi giorni, però, almeno per un attimo, spero di ritrovare grazie a lei il mio chiaro del bosco.

Dispersione

Ho bisogno di qualcuno o qualcosa che mi metta a terra. Non c’è attività che mi riesca senza una dispersione di energia pari a quella che incanalo per concludere l’impegno preso. Ho problemi nell’isolamento dell’attenzione, avrò qualche cavo dell’identità mal collegato o scoperto, sono un elettrodomestico guasto che fa saltare sempre la luce, il mio orizzonte d’azione ha un salvavita evidentemente difettoso. Non si va da nessuna parte senza messa a terra. Se mi mettessero a terra riuscirei a sistemarmi, sentirmi parte di una comunità, fare uno straccio di carriera, stabilizzare i miei interessi, pettinare il mio tempo, essere risolutivo nelle questioni, non guardarmi sempre attorno o indietro. Anche ora soffro una dispersione. In questo momento entra aria nel canale del mio impegno per la tesi. Più tardi entrerà aria nel canale del mio impegno per la famiglia. Domani entrerà aria nel canale di una lezione che devo preparare. In territori già conosciuti mi disperdo: questo è il paradosso, questa è la sorgente di una colpevolezza che rinnova le dispersioni di energia creandomi tutto attorno l’aura luminosa che mi fa assomigliare a una torcia umana dai contorni sfumati. Chi mi stende? Chi mi mette a terra in modo definitivo, permettendomi di funzionare bene e ritenermi una volta per tutte “adatto” allo scopo?

Essere veri

Ancora non ci sembra vero. Dopo oltre sette mesi, non ce ne rendiamo conto davvero, è come se non ci fosse… tranne quando, sempre più spesso, batte un calcio o fa una capriola dentro la pancia della mamma. Sarà una bambina stavolta. Per lei, mi dico, manco noi sembriamo veri, anzi non esistiamo affatto: nel tepore liquido di tutto il suo universo ramificante non c’è altro che lei. Lei. Nemmeno la ripetizione del sesso mi illude di sapere già qualcosa e potermi aggrappare alle esperienze collezionate negli ultimi tre anni, per affrontare questa nuova apocalisse. Sto smettendo un’altra volta di “essere vero”, lo sarò di nuovo soltanto quando sarà nata lei. E mi sento sbiadire, i miei contorni di carne non sono più tanto netti. Chi mi parla ha davanti qualcosa che non è più del tutto come si presenta. Quante volte si può nascere in una sola vita? Quante volte si può smettere di essere veri, di esserci in un modo definito, per sentirsi addosso la costruzione di un’altra pelle, un altro organismo. Non c’è follia maggiore e più fuori moda di questa. Non c’è movimento più forte, né arte più impegnativa e carnale, né vita che ci avvicina di più alla natura oggi tanto concettualizzata, né condizione più selvatica e autentica di questo ennesimo cambio di pelle. Mentre si allargano gli anelli nel tronco che ci stacca da terra.

Carte segrete

Da oggi si riapre uno dei nascondigli tutti che ha la terra: la poesia, l’esperienza umana di Scipione, una delle migliori intelligenze del suo tempo, secondo Cesare Pavese. Ringrazio l’editore Bizzarro per avermi fatto confezionare l’invito alle Carte segrete restituendo, spero almeno in parte, l’incandescenza del loro fuoco e il mio amore per questa “dichiarazione aperta del mondo umano o se si vuole letterario, non estraneo alla pittura, anzi mischiato ad essa, come un medesimo fatto, senza la separazione dei regni” (Guttuso 1942).

Io sono la voce dell’albero che cade,
la mia corteccia sarà accarezzata
quando si vedrà che dentro sono bianco […]

Oltre a un inserto fotografico con alcuni dei suoi quadri e disegni più rappresentativi, all’interno c’è anche un inedito saggio di Alvaro Valentini sull’autonomia e la dignità estetica della poesia di questo immenso pittore che fondò la Scuola Romana alla fine degli anni Venti, ma ebbe anche un posto nelle antologie del Novecento accanto ai nomi di Ungaretti Quasimodo e Montale.

Io sono l’aporia

Crocifisso al muro l’indice della tesi, trafitta da lance di grafite e note come spine in testa per collegare le idee alla scrittura, questa domenica mi vedo già postumo così: il terzo anno è risuscitato, malgrado le letture, a vita camminante sulle acque del precariato. Oh, gente di poca fede, voi non sapete quanto pescato sogna l’altrove delle reti nostre, per tutti quelli che crederanno alla mia caròla – io sono l’aporia, lei brillerà, tu la vita.