Vogliamo far sentire che esiste davvero, il sangue nelle vene di un altro. Vogliamo esaltare ogni passaggio visibile di ombre tra una quinta e l’altra dell’inaccessibile realtà. Vogliamo salvare il moto oscillante di ogni contraddizione che genera vita e respiro nella vicenda umana. Vogliamo lasciare un sapore o un’idea generale, un ricordo vago ma innegabile in chi finisce di leggerci. Che sia l’assurda bellezza della vita, il tormento della sua insensatezza, la ferocia di ogni miseria spirituale o materiale, la nostalgia dell’eterna infanzia, la maturità di quello che non saremo mai per ogni scelta fatta. Vogliamo dare a chi legge la certezza che fuori dalle sue vene batte altro sangue: per forza! Come se potesse sentirlo nella cadenza della nostra voce. Vederlo nelle figure che gli coltiviamo dentro. Toccarlo nel vetro chiuso al calabrone. Fiutarlo nell’erba tagliata in giardino. Assaggiarlo nel primo morso dato a lettura finita. Deve succedergli quello che è successo a noi quando abbiamo guardato il mondo e in tutti i modi possibili e impossibili abbiamo pensato – come dice Alessandro – aprimi, cielo.
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Ryuichi Sakamoto
Sakamoto era tutti i petali di un ciliegio in fiore. Era bello sapere che c’era il suo corpo animato nel mondo. Era immenso vederlo ridere con Morelenbaum nelle take a casa di Jobim. Era i miei quindici anni e il loro scambio irripetibile di segreti. Era quello che dovevo fare da grande, quando non sapevo dare parole alle sequenze di piano. Era tutto il tempo del mondo quando fuori pioveva, una penna sul foglio, una candela. Lo stupore, l’assurda famiglia, la corsa di notte sul lungomare spaccato dai cavalloni. Il cuore immobile prima di esplodere, era il velluto e la pulizia. Una piuma, un aquilone, una punta di coltello. Era il suo capo sui tasti bianchi e neri, passi che arano lo spazio gigante ma sfiorano il terreno. La ricerca, la curiosità, la fatica irreperibile. Era i film impossibili senza di lui. L’ultimo imperatore coi tacchi a spillo che beve un tè nelle cime tempestose del deserto. Una trasversa nel canale boschivo dei generi. Era tutto il silenzio meraviglioso del mondo e il brusio lontano di una metropoli. Un fiume dei miei tanti fiumi. Era un incedere preciso e un mondo chiuso anche per anni, ma era sempre l’adesso, nido pronto a ogni ritorno, avendo scavato coi materiali della mia rapsodia interna la sua scia di presente. Musicisti, fate musica ancora, spendetela questa vita aprendo agli altri nel tempo una scia di presente. Fateli beare e piangere di tutto. Siate assurdi e accessibili. L’aria ha ancora tantissima sete. Spaccate il vento in mille battute, chiudete ogni stagione dell’inconoscibile in tante scatole di musica perfette.
Vogliamo nascere
Sento una grande fitta al muscolo dell’attesa: doveva arrivare, dovrebbe arrivare – ancora spero, – un pacco per me entro domani mattina, così che possa portarlo giù a Palermo. E ancora oggi non è arrivato. Si contrae il muscolo di un’attesa lunga anni, ancor più nell’imminenza del compimento. Si compie il tempo attraversato e soffro ogni spasmo del travaglio. Da qui a domattina se mi facessero un tracciato riempirei il foglio di impennate e precipizi nella corsa al ritmo di un segnale acustico forsennato col corpo stretto dalle cinghie. Basta. Vogliamo nascere. C’è ancora tempo fino a domani.
Arriva
Arriva l’ultimo mese, è qui, dicembre, ora. Ho già iniziato a collezionare pensieri positivi per il bagaglio spirituale che servirà. Il viaggio è impegnativo, quello tra gli affetti più cari, da cui ho staccato il quotidiano migrando per lavoro tanti anni fa. L’avrei staccato ugualmente, forse, per l’istinto che chiama alcuni a crearsi una retroguardia amorosa a cui pensare o tornare nei momenti più duri sulla prima linea. Le risorse per fortuna non mancano: tra libri e maglioni porterò giù a rinforzo morale (mio e altrui) due belle notizie sulla mia attività e l’impazienza di conoscere una nipote nata a sant’Andrea di fine novembre. Mi serviranno pure le belle cose che troverò già lì ad aspettarmi, per rispondere ai nervosi agguati del dolore, previsti per motivi strutturali e contingenti. Ma come dice un’amica Avvento è una parola bellissima. L’attesa di qualcuno che viene è un’esperienza bellissima. Così, se alcuni diletti è anche me che aspettano, il mio ritorno – come dicono dalla loro prospettiva – io metto nel bagaglio anche il ringraziamento d’essere motivo di bellezza per alcuni, oggetto di un’attesa. A mia volta, aspetto l’arrivo di tanti abbracci, una pronuncia delle cose, l’odore d’arancia e manderino, la vista del mare, l’antico ritrovo di una villa, la possibilità di dire “a stasera” e altra improvvisata gioia senza scorie. Ci sarà tutto questo insieme agli agguati, è la vita e, credo anche, un’accettabile definizione di felicità. Quello che mi fa sentire più a casa forse la notte sul mare, all’andata o al ritorno, tra due sponde del Sud.
Un ricamo
Poesia è fare, a volte è dare parvenza di senso al caso, non restituendone i tratti vivi e nitidi ma come ricamando il profilo della sua ombra. Suggerire che qualcosa possa avere senso, un senso non visibile ma tanto solido e presente da schermare il sole a terra in arabeschi. Così oggi ritrovo su un vecchio quaderno un esercizio di quattro anni fa. Avevamo segnato in colonna le iniziali del nome delle persone sedute al tavolo, con la pretesa di imbastire un acrostico. Questo, il mio risultato: Ammettiamo Noi Le Cose Tonde: Se Dico “Luna” Si Muovono Ricamanti Fate Alla Marina. Eravamo quattordici intorno al tavolo. Non ricordo se io corrispondevo all’indicazione muovono o alla finale marina.
Lidl
Io quando non c’è niente che può più rendervi felici e ormai è pomeriggio vi dico di prendere l’auto e andare a fare la spesa della vita, quella per riempire la dispensa, i cosiddetti rifornimenti. Tornerete a casa, meglio se dopo avere cercato posteggio per un po’, con un senso di riempimento – se non altro visivo – della metaforica pancia che prima era vuota e dava più eco all’infelicità. Adesso che la spesa è fatta siete pieni di una cosa indubbiamente utile, avete fatto una cosa pratica, avete riempito il tempo pensando a un bisogno primario e non agli astratti furori che vi infelicitavano. Avete avuto, poi, la tacita conferma di disporre ancora di un po’ di soldi nel conto, almeno quelli utili a non essere infelici per motivi “ultimi”: conferma periferica di avere ancora una casa da raggiungere, un frigorifero da riempire, una cena a cui pensare, dei gesti fisici e una cura del tempo (se non altro quella dei tempi di cottura) in cui concentrarvi, mentre piano arriva la sera e l’ora di andare a dormire. Questo è un uomo, penserete con la testa sul cuscino ricordando un doloroso allarme sui minimi estremi della dignità umana: io sono un uomo, io sono una donna. La dignitosa conferma farà evaporare gli ultimi fumi degli astratti furori. La notte, sognerete una forma qualunque di ringraziamento.
Torri
I bambini fanno le torri e noi pensiamo che il motivo sia fare ogni volta quella più alta. Il motivo invece è farle cadere. I bambini fanno le torri per farle cadere. Più alta è la torre, più clamorosa la caduta. Quanto sono devoti alla vertigine! Quanto riescono a fidarsi del superamento dei loro limiti! Cadere a terra mentre si procede in equilibrio su un muretto non li dissuade dal rifarlo; sbattere la testa sotto il tavolo non gli impedisce di chinarsi e farci un’altra casa tra le gambe; rovinarsi la gola per una questione di principio non li scoraggia dal gridare in lacrime altre volte. E parlare parlare parlare non per avere risposte ma sempre per questo: mettere alla prova il mondo e loro stessi, facendo domande, spacciando bugie. Dovrò ritrovare il gusto per la caduta, la perduta mia devozione per la vertigine, l’ardimento fantastico a scapito della testa, il rischio di mutismo per qualcosa in cui credo. Di nuovo.
Un mare di fuoco
Manovro le finestre della casa a doppia esposizione come fossi in mare aperto. Spalancate, le blocco in mille modi: sedie, giocattoli, grucce, scatole, bastoni di scopa. Aspetto qualche minuto in vari punti, fermo sulla soglia delle stanze. Quando un filo di vento passa tutto il corridoio, invitato dal sistema aperto tra le ante e gli spigoli, vivo un trionfo navale. Vedo gonfiarsi il fiocco sovrapposto alla randa e sento l’obliquo strattone dello scafo sul mare piatto: i canovacci dondolano sulle maniglie, un foglio cade a terra, il lampadario oscilla incredulo. Dura un attimo, poi torna la bonaccia. Però ci siamo mossi! Sembrava di poter infilare di nuovo la maglietta e fissare il promontorio per mantenere la rotta su quell’angolo di vento. La casa invece si raddrizza, si ferma e noi ci affacciamo su entrambi i lati per capire, tra lamiere d’auto roventi e antenne immobili sui tetti, da dove arriverà la prossima spinta. Le sirene che passano a branchi potrebbero aiutarci ma non si fermano mai, perché non possono. Corrono, loro, verso l’ennesimo incendio.
Tempesta di calore
Tempesta di calore. Non l’avevo mai sentito dire, ma rende l’idea. Pure di sera si respira un’aria immobile. Mio figlio cercherà consigli e direttive sulla vita a queste temperature. Chiamerà gente che per ultima avrà lasciato l’Africa e si farà dire tutto sulle camminate chilometriche col bidone da riempire. Inizieranno, lui e i suoi figli, a coprirsi ogni lembo di pelle quanto più caldo li sorprenderà, come ancora a noi oggi sembra controintuitivo. Solo in qualche breve tregua invernale potrà sperare di portarmi un fiore non secco, se la terra non si sarà già spaccata dove sarà il mio posto. Gli incendi estivi delle mafie negli ultimi residui verdi dell’isola non aggiungeranno gradi all’atmosfera già rovente, solo cenere che si mischierà alla sabbia sui vecchi tavoli di marmo variopinto in terrazza. Nessuno ricorderà più i 53 gradi in Spagna alla fine di questa primavera del 2022, né le immagini impressionanti che arrivano dai satelliti. In pochi capiranno ancora l’espressione “cuore di ghiaccio” che qualche anziano giornalista userà in tv per qualificare l’impassibilità del governo, muto davanti all’ennesima alluvione che avrà fatto crollare un ponte o il costone di una montagna, alla fine dell’unica grande stagione di fuoco intorno alla stella Sole.
Fatto bene
Penso al parametro di giudizio più usato sulle serie tv: è fatta bene, è fatta male. E mi sento come un utente di Netflix che inizia a stancarsi e vuole spegnere. Mi riferisco al film sulla guerra in corso. Non si tratta più, infatti, di parlare come cittadini che pretendono una buona informazione; si tratta di parlare ormai come spettatori che pretendono una storia fatta bene. Credibile cioè. Fin qui la propaganda (segno lampante che chi deve decidere ha già deciso cosa fare, a prescindere dal nostro volere) se l’è cavata: dalle storie di nozze fra soldati ucraini intrappolati, agli U2 che suonano in una metro a rischio bombardamento. Un racconto non deve essere credibile, dev’essere l’unico. Se non ce ne sono altri, sarà creduto. Per questo si vede un film alla volta in uno schermo solo, e non due in due schermi insieme. Qui assistiamo a un solo racconto in effetti, perciò finora lo abbiamo seguito senza tanti problemi. Ditemi voi però se il film non comincia a stancare. L’altro giorno, la felpa di pile di Zelensky è stata venduta a un’asta londinese per 105 mila euro. Ieri una competizione europea di musica è stata vinta dall’Ucraina, forte dell’appello di Zelensky. I musicisti vincitori hanno dichiarato: ora torniamo a combattere. Il principio di spettacolarizzazione che uniforma i diversi piani della realtà, però, vorrebbe che anche la Russia vincesse qualcosa. Altrimenti, per quanto sia l’unico, anche questo racconto inizia a diventare poco credibile. E noi a dire che non è fatto tanto bene, che i fatti che ci propinano sono fatti e strafatti e a noi, gente perbene, non piacciono gli eccessi. Zelensky, al momento tutto quello che tocchi diventa oro: avrei un dente da sostituire. Senza impegno, quando hai tempo. Tra una guerra e uno show.