Sakamoto era tutti i petali di un ciliegio in fiore. Era bello sapere che c’era il suo corpo animato nel mondo. Era immenso vederlo ridere con Morelenbaum nelle take a casa di Jobim. Era i miei quindici anni e il loro scambio irripetibile di segreti. Era quello che dovevo fare da grande, quando non sapevo dare parole alle sequenze di piano. Era tutto il tempo del mondo quando fuori pioveva, una penna sul foglio, una candela. Lo stupore, l’assurda famiglia, la corsa di notte sul lungomare spaccato dai cavalloni. Il cuore immobile prima di esplodere, era il velluto e la pulizia. Una piuma, un aquilone, una punta di coltello. Era il suo capo sui tasti bianchi e neri, passi che arano lo spazio gigante ma sfiorano il terreno. La ricerca, la curiosità, la fatica irreperibile. Era i film impossibili senza di lui. L’ultimo imperatore coi tacchi a spillo che beve un tè nelle cime tempestose del deserto. Una trasversa nel canale boschivo dei generi. Era tutto il silenzio meraviglioso del mondo e il brusio lontano di una metropoli. Un fiume dei miei tanti fiumi. Era un incedere preciso e un mondo chiuso anche per anni, ma era sempre l’adesso, nido pronto a ogni ritorno, avendo scavato coi materiali della mia rapsodia interna la sua scia di presente. Musicisti, fate musica ancora, spendetela questa vita aprendo agli altri nel tempo una scia di presente. Fateli beare e piangere di tutto. Siate assurdi e accessibili. L’aria ha ancora tantissima sete. Spaccate il vento in mille battute, chiudete ogni stagione dell’inconoscibile in tante scatole di musica perfette.