Dalla soglia dell’eternità

24/4/’45 ore 24, carcere di Cuneo

Amore mio diletto,

è mezzanotte e ancora stiamo chiacchierando allegramente. Siamo tutti e cinque assieme e si scherza quasi allegramente. Come già ti ho detto è stato qui D. Monge a cui ho consegnato il portafogli e gli indumenti, D. Oggero, parroco di S. Ambrogio (Cappellano delle Carceri) e D. Panori. Ci siamo confessati e speriamo quest’ultimo ci porti ancora la Comunione domattina.
Anna Maria cara, forse tu piangerai a leggere questa mia. Se piangi per te, per il tuo avvenire troncato, passi, lo comprendo, ma se piangi per me, no! Ti sbagli. Anna Maria, nella tua ultima mi esortavi ad avere fede in Dio; non credi quanto mi senta vicino a Lui in questi momenti! La morte? Eterno spauracchio di noi mortali! Spauracchio? Sì, ma per la materia, che m’importa! La materia? E cosa può la materia? Quante volte nei momenti felici ho pensato ad un momento simile! Ricordavo proprio stasera di aver letto “L’ultimo giorno di un condannato” di Victor Hugo che forse si trova ancora a Faione tra i miei libri. Tante volte basandomi su esso ho pensato al momento di morire. Quanto ero sciocco!!! Solo ora lo comprendo. Sai Anna Maria cosa rimane all’ultimo di tutto? Solo quello che è santo e puro della vita. L’affetto dei genitori (in essi tua madre), l’affetto di quanti mi vollero bene e che ora avvalori sotto un’altra luce; la luce che ti proviene dall’affetto per Dio. Amore mio, ti ho sempre amata tanto, tu lo sai, ora ti amo più che mai perché ora maggiormente si accostano i due amori, per te e per Dio.
Anna Maria, forse mi dirai che potevo ben dirti altre parole di maggior conforto, lo so, ma quale conforto può essere maggiore per te se non il sapere con quanta serenità tuo marito si prepara a veder Dio. Sono solo contento che Dio ha avuto pietà di me e ancora all’ultimo momento mi ha mandato un sacerdote. Anna Maria sapessi mai cos’è la vita vista dalla soglia dell’eternità, quale miseria, te lo posso ben dire io con quale orrore si guarda al nostro passato! Se non fosse quella stessa fede che ci fa provare simile orrore, a sostenerci, che si farebbe mai? La fede ci fa provare orrore, ma nell’istante stesso, ci dice che Dio è infinitamente grande. E allora si implora la sua misericordia. Quando finalmente hai provato la sensazione della sua misericordia e l’hai provata con maggior fede delle altre volte, poiché sai che è l’ultima volta che Dio ti dice: “Ego te absolvo…”. Ecco che guardi sicuro davanti a te e non temi più! Sono sicuro che tu e mamma alle 7 pregherete quasi certamente per me, per il mio ritorno, rassegnatevi al volere di Dio, io a quell’ora penserò a voi che pregherete per me e morirò sereno.
Amore mio, dal portafogli ho trattenuto la tua fotografia e quell’immagine in cartapecora che mi desti quando eri anche tu in carcere. Le ho nella tasca interna della giacca, sul cuore, saranno simbolo dell’immenso affetto per te, che mi porto nella tomba. Al dito la fede, la porto con me come ricordo di quella fede promessati quasi un anno fa e che mai ho tradito.
Anche tu conservami nel cuore e soprattutto nell’anima. Prega, prega, prega tanto per me, non dubitare che io pregherò tanto per te, perché Dio ti conceda quella felicità che purtroppo io non ti ho potuto dare. Vedi che io sono sereno, spero di esserlo anche tra poco davanti ai miei carnefici, sii forte anche tu nel tuo dolore e rendi forti anche i nostri genitori. Domani forse conoscerò tuo papà. Se Dio mi vorrà con Lui, con tuo papà veglierò su te. Non ti dico addio… perché come già ti ho detto fra noi non vi è addio, resta e sii la consolazione dei nostri genitori, specie di tua madre che è sola e poi…… arrivederci, il tuo Attilio

Sono le 6 del mattino. Aspettiamo la Comunione. Sono calmo e ti bacio di tutto cuore. tuo Attilio

7,30 – Abbiamo ricevuto la S. Comunione, mi sento forte. Ho pregato tanto. Abbiamo ricevuto la Benedizione papale…… Siate forti ed abbiate fede. Aff.to Botti Eligio

Fatevi coraggio, Bracciale Rocco, Cornaglia Virginio, Tomatis Renato.

Note al documento

L’appendice è probabilmente opera dei compagni di prigionia di Attilio Martinetto, che condivideranno il suo triste destino di lì a pochi attimi. Nel documento sono presenti alcune correzioni fatte a mano con una penna nera. In alto nella prima pagina, a matita, è scritto il nome di Attilio Martinetto.

Confluite

Confluite in me, energie migliori
respirate in me
quel che
io non respiro nel mondo.

A volte si dice non ci restano che le preghiere. Ultimamente mi vengono solo invocazioni, per me, per altri, per il mondo come lo sento. Se dicessimo a tutti gli alloccuti dalla religione e dal catechismo che non ci sono preghiere da ripetere ma solo da inventare, toccando il proprio centro, nel centro della bufera o ai piedi dell’arcobaleno, sono certo che (qui in occidente, almeno) ci sarebbe molta più spiritualità e apertura. Yeshua stesso lasciò una e una sola invocazione ai dodici, dopo grandi loro insistenze legate a una sorta di vuoto che li inquietava, forse, pensando alla religione che stavano tradendo, quella ufficiale fatta solo di formule da imparare. Se però hai interiorizzato la grammatica del sacro, che sia per la sequela di un racconto o di un altro, allora è certo che diventi poeta della tua anima. E i versetti che servono ti escono di bocca come dal grembo non tuo in cui aspetti di rinascere. Sempre. A proposito di questa parola, proprio oggi è successa una cosa straordinaria. Ho solo digitato per sbaglio la A al posto della S, poi tutto giusto. Volevo scrivere sempre. È uscito fuori amore.

Addaura

La balconata a mare è una processione
di faglie aperte
sul cemento. Questo fa
il sapore alle cose. Il sale alla vita.

* * *

Tra le panchine all’aperto e i sandali
ospiti delle formiche, facciamo
scorta di preghiere
per l’inverno dello spirito.

* * *

Quando scura prima e fa freddo però
andiamo altrove, il nostro
chiuso cade a pezzi: raccogliamo
soldi per il tetto e cibo
per i poveri – sempre ospiti siamo.

* * *

Oltre i corpi e le pareti sbriciolate
proviamo a parlarci
rivoltando l’indicibile sui racconti
del nazareno. C’è una chat
che l’Addaura non ha visto mai.

* * *

Il magnete della luna alza le onde
verso gli oleandri
sotto l’occhio del cane
Pellegrino, come il carisma
di un uomo
scapiglia ogni ricerca del senso.

* * *

Ti ho visto al mare, in costume
ma non ho riconosciuto
il sale che ci resta sulla pelle
ogni volta che finisci
di parlare a tutti, il sabato sera
o la domenica: deludimi
ancora, di vita straripante
e sarò tuo, ti ascolterò per sempre.

* * *

Sette preghiere come sono i mari
da sorvolare
per l’incontro inatteso,
la prossima faglia di carne da aprire.

Una poesia da ridare il fiato

La vita supersonica del genitore, ancor più accelerata dai malanni simultanei dei figli, mentre tu e la madre avete piombo nelle ossa e nelle palpebre, fiato corto e nervi sfilacciati, tocca l’estrema sponda che impedisce di scrivere rinnovando la prepotente necessità di fermare invece qualcosa, per la sete, non più di linguaggio e intelletto che riquadrano il senso degli eventi, ma di suono e cuore che chiedono magia per resistere al centro di una bufera. Così, tra un episodio e l’altro della tosse notturna nasce il bisogno radicale di una formula, che ha tutto della preghiera ravvivante lo spirito, nella piena consapevolezza che da soli non si può più e c’è bisogno di un intervento esterno, di evocarlo facendosi intima distanza nel rito uso alla formula per dare spazio libero al prodigio, a cui ormai è evidente l’esclusivo appannaggio della soluzione in quel buio di sfinimento e perdita di bussola. Questa è forse la scrittura che mi compete nel tratto di vita attuale, fatta di piccoli ami celesti, invocazioni al regno magico che ci osserva, fiducia nel canto e nella ripetizione dei versi, corpo sonoro di un amore cosmico, mentre cammini con tua figlia sulla spalla, ieri notte sussurrando

Dio santo che sei negli atomi
e nel fiore del pitosforo
proteggi il respiro
dei miei figli, custodisci
la loro luce,
falli camminare nell’aria
limpida della notte
per tutti i sogni
che non ricorderanno,
portali fino al sole
del giorno dopo sulla città
che non li conosce
ancora, fino al tempo
che avranno forte
il petto da non volere
più il nostro povero aiuto
e aperto un orizzonte
senza ostacoli né più rovine.

Così viva, troppo viva

Non riesco più a farla morire. La scrittura è sempre stata un organismo vivente, mai uguale a sé stessa, mutevole, instabile, accesa, che a un certo punto, però, riuscivo a catturare per un attimo, toglierle il respiro. Ora è più difficile. Si muove più veloce, respira più forte, cambia in modi sorprendenti, riluce come fuoco dalle viscere in Islanda. Fermarla, catturarla come prima, è quasi impossibile. Troppo viva è ora dentro me che quasi non ne ho più notizia. Corre negli anfratti più segreti e arriva fuori senza controllo, fino ai contorni della mia ombra sul marciapiede, per poi tornare indietro, nervo teso, inafferrabile. Ha un altro passo, non riesco più a seguirla. Quando si stancherà di essere così viva potrò fermala di nuovo, inchiodarla, ucciderla sulla pagina un’altra volta, toglierle il respiro. In un domani senza data sarò il primo a stupirsi per com’è cambiata, mentre correva, come adesso, più di ogni favola che possa immaginare. Sarà alta o bassa? Deforme o regolare? Più giovane o più vecchia? Certo, sarà lei a riconoscere me. Guarderà dentro, oltre la pelle assottigliata da questa vita supersonica che ha preso ogni battito del mio cuore. Allora si farà catturare e mi saluterà, dirà ciao, come stai. Sono io, quasi te, sono il mondo di nuovo tutto intero, senza resto né rimpianto, porta viva, una crepa in mezzo al tempo.

Venerdì santo 2024

Il buio che durò da mezzogiorno alle tre copre il mondo già da qualche anno. Così oggi è un giorno verticale, l’unico del calendario, perché corrisponde nel Racconto alla nostra lunga condizione: oggi è verità. Alzando la testa sembra aprirsi un raggio dallo scuro dei nostri occhi, a bucare il fitto di tenebra. Durerà fino a domani questa corrispondenza. Domani si spegnerà ogni luce legata alla simmetria del buio che ci traversa oggi, dalla terra al cielo, e i giorni torneranno orizzontali, con raggi di plastica impotenti nello scuro indefinito che allungherà il mezzogiorno fino alle tre per chissà quanto altro tempo.

Mezzi termini

La necessità di non perdere tempo a dosare i mezzi termini di un tono, un giudizio, un modo di fare, cresce al passo con la stanchezza di un’età in cui si supponeva invece di raggiungere la saggezza o roba simile, se non altro avendo affinato l’arte della mediazione e della prudenza. Esagerare è un tratto tipico degli adolescenti, degli attori, degli esaltati per via chimica e pochi altri. Non si addice a un marito e fresco padre di due figli, se è questa la mia etichetta più immediata. Invece io voglio esagerare, oggi più di ieri, se è possibile. Ho bisogno di abbandonare i mezzi termini e raggiungere sempre e in ogni occasione la piena mèta del dire, quando parlo – perché ho deciso di parlarci – con qualcuno o qualcuna. Forse, crescere davvero e diventare saggi è aver collezionato un numero di esperienze tali, dirette e indirette, da raggiungere un livello in cui poi si ritrovano alcuni tratti degli anni fioriti tra spigoli e incertezze. Con tutta la dignità in più, però, di una vita ricca di cesure e rinascite nel mezzo. “Sia il vostro palare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno”, disse il primo rinato.

Ringraziare è una cosa seria

Il massimo grado di tangibilità veicolata dalle parole è sempre dato dall’espressione di un ringraziamento: solo una sua forma – da quella palese e breve (grazie) a quella più segreta ma pulsante nella luce indiretta di uno scritto o di un parlato – solo una forma tra le mille possibili di ringraziamento ricevute ribadisce l’esistenza vera degli altri, confermando al ringraziato che c’è vita nello spazio ignoto delle galassie individuali. Se Kafka non sembra ringraziare, in realtà, noi avvertiamo la sua esistenza concreta nella grazia di una scrittura che illumina l’inquietudine di cui era fatto, e sentiamo la ragione del suo ringraziamento nel poterla comunicare, farla cioè uscire da sé, nello spazio che sono i suoi lettori. La bellissima superficie delle parole è l’unica offerta di mondo alieno tangibile e toccante di cui si può disporre. Altre forme d’arte, dall’eros alla musica, implicano già la costruzione partecipata di una realtà. Soltanto le forme gratuite e luminose del ringraziamento confermano l’esistenza indipendente e autonoma di altre vie concrete per l’anima, in perfetto e autonomo stato di circolazione. Così, una delle più belle definizioni descrive l’amore come una sorta di ringraziamento anticipato e gratuito nei confronti dell’amato: non si fanno calcoli sull’interesse desumibile, non si aspetta di ricevere un bene per contraccambiare. Si riconosce la meraviglia del semplice fatto che l’altro esiste: quell’altro da me c’è veramente, e io l’ho conosciuto. Ringraziare è una cosa seria, spesso ridotta alla degradante funzione di chiudere un dialogo o aprire meccanicamente un intervento, magari ringraziando chi ti ha invitato a parlare. Nessuno ringrazi se non ha ricevuto davvero qualcosa di inaspettato.

Sognarsi stanchi

Adele avrà quasi cinque mesi, quando metterà piede per la prima volta a Palermo, per la Pasqua in Sicilia, l’altra isola rispetto a quella dov’è nata. Oggi andavo a prendere Arturo a scuola e questo pensiero su sua sorella mi ha inventato una commozione. Erano da poco passate le quattro e avevo già le gambe stanche per una notte troppo breve, un rassetto domestico di portata esistenziale e impegno fisico importanti, un bicchiere di vino dopo pranzo e un fallito tentativo di riposare. Ma era quella stanchezza a regalarmi lo spazio per concepire la prossima felicità: tanti cari conosceranno il mio pettirosso e io la vedrò sorridere nel posto dove sono cresciuto e di cui sono fatto per sempre. Facce, strade, giardini, spiagge, suoni, odori, luci, ritmi, cultura. Sarà la prima volta che potrò vederla davanti al mare. La stanchezza di oggi mi ha liberato dalla possibilità stessa di pensare alle incombenze che pure intanto mi pretendono – quotidiane, burocratiche, lavorative, organizzative. Così, oggi ho intuito che uno dei più diffusi e taciuti desideri – non solo di chi ha figli ma di tutti quelli che non possono smettere di essere qualcosa, dai tossici del lavoro agli schiavi in ogni campo, dal divertimento al più serioso monachesimo ideologico – uno dei sogni più riposti è quello di poter essere semplicemente stanchi. Esercitare la stanchezza: esibire al mondo e a sé stessi un passaporto di debolezza, permettendosi di essere stanchi e nient’altro, stare e basta. A volte, ancora, quando Adele è con me e le mie braccia sono la sua casa del sonno, mi godo questo lusso. Guardo le nuvole senza altri pensieri e avverto l’esercizio antico di una presenza, lo scorrere esclusivamente fisico del tempo su di me, nell’unisono di una giostra che si è fermata per un attimo e lascia spazio solo ai respiri che ci sento fare, al di qua della tenda, nella camera del sole.

Risonanza

Il martello batte sulla corda una volta, oppure mille. Solo quando si ferma sa cosa ha fatto, quale musica è stata. Quale continuazione del passato nel presente. Il complesso che nell’aria ha mosso certe onde vive grazie alla consegna della tastiera ferma. Oggi ho smesso di suonare, fatto l’ultimo gesto. D’ora in poi è risonanza. Per il tempo necessario, terrò le mani in sospeso. Cambierò ogni giorno i fiori sul tavolo aspettando nella camera della fiducia. Ho suonato abbastanza da rendere elastico il tempo fino al raccolto – sia pure magro o pieno di frutti, il mio Unico l’ho dato e so che tornerà: sarà un bacio all’improvviso o una risata che si annuncia da lontano. Nell’attesa che il suono arrivi dove l’ho mandato, il grande vuoto si riempirà di terra e cosmo, e io facilmente mi perderò in altre faccende. Potrò anche dimenticare tutto. Un giorno, però, qualcosa mi cercherà: sono l’opera. Tornerà il suono che ho staccato da me. Sarà stato nell’udito altrui, avrà il volto del loro “momento” ma sarà ancora la carne mia e delle vite che ho trascinato con me, nel presente dell’esecuzione, senza chiedere il permesso. Sarà un bacio per sempre o anche una risata: la amerò ugualmente questa musica. Tornerà, mi troverà, e mi darà il mio nuovo nome.